L’Italia no nuke, oltre a dover gestire la pesante eredità lasciata dalle centrali e dai depositi nucleari collocati in siti inidonei, pericolosi e spesso a rischio di esondazione, si trova a dover far i conti con il grande problema del
traffico illecito di rifiuti radioattivi, causati anche dall’
elevato costo di smaltimento. Un settore su cui la criminalità organizzata ha già da tempo puntato gli occhi come descritto dai numerosi rapporti di Legambiente pubblicati a partire dalla metà degli anni ’90. È quanto torna a denunciare oggi Legambiente con numeri e dati alla mano raccolti nel nuovo report
“Rifiuti radioattivi ieri, oggi e domani: un problema collettivo”, lanciato in vista del X anniversario dall’incidente di Fukushima, in cui tratta il tema in questione facendo anche una panoramica della situazione a livello nazionale ed europeo.
Nella Penisola
dal 2015 al 2019, il lavoro svolto dall’Arma dei carabinieri, attraverso il Comando Tutela Ambiente e il Cufa,
ha portato alla denuncia di 29 persone, con 5 ordinanze di custodia cautelare, 38 sanzioni penali comminate e 15 sequestri effettuati a seguito dei 130 controlli effettuati. L’esistenza di un’illegalità “sommersa” viene confermata anche dai dati del Ministero della giustizia pubblicati nel
Rapporto Ecomafia 2020: dal
2015 (anno di entrata in vigore dei delitti contro l’ambiente tra cui quello di traffico e l’abbandono di materiale ad alta radioattività)
al 2019 i
procedimenti penali avviati sono stati 25, di cui ben 14 contro ignoti (anche a causa del fenomeno delle cosiddette “sorgenti orfane” abbandonate tra i rifiuti e di cui non si riesce a tracciare l’origine),
con 10 persone denunciate e un arresto.
Tra le inchieste, l’ultima in ordine di tempo, ha visto impegnata lo scorso febbraio la Direzione distrettuale antimafia di
Milano che è riuscita a smantellare
un’associazione a delinquere, con forti connessioni con la ‘ndrangheta, attiva nel traffico illecito di rifiuti, tra cui anche 16 tonnellate di rame trinciato contaminato radioattivamente.Dati nel complesso preoccupanti che per Legambiente dimostrano come il Paese si trovi in uno stato di insicurezza. Per questo per fermare la rincorsa alla “radioattività in nero”, oltre alla realizzazione del deposito nazionale di rifiuti a media e bassa attività e alla piena applicazione della legge 68/2015 che ha introdotto i delitti ambientali nel codice penale, per l’associazione ambientalista è indispensabile anche la rapida entrata a regime del Sistema informatico di tracciabilità di tutta la filiera legata all’uso di materiali e/o sorgenti radioattive, dal commercio alla detenzione, previsto dal decreto legislativo 101 entrato in vigore nell’agosto dello scorso anno e che ha finalmente recepito nel nostro Paese la direttiva Euratom del 2013. Tale decreto ha introdotto l’obbligo di comunicare i dati sulla produzione e gestione di questa tipologia di rifiuti, con sanzioni penali e amministrative nel caso di violazioni: si va dai 10mila euro di sanzione amministrativa per l’inottemperanza agli “
obblighi di comunicazione, informazione, registrazione o trasmissione”, ai tre anni di arresto per “
chiunque effettua lo smaltimento, il riciclo o il riutilizzo di rifiuti radioattivi senza l’autorizzazione”.
“In Italia – dichiara
Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – non c’è solo il problema dei depositi di rifiuti radioattivi realizzati in luoghi inidonei o addirittura pericolosi, ma anche il rischio dei loro traffici illegali. Un problema che la nostra associazione denuncia ormai da anni, da quando nel 1995 pubblicammo il nostro primo dossier sull’eredità nucleare portando in primo piano le vicende giudiziarie connesse all’affondamento di navi contenenti rifiuti radioattivi nel Mediterraneo al largo delle coste italiane e in acque internazionali. Da allora sono seguiti tanti altri dossier di denuncia uniti alla nostra battaglia storica per l’introduzione dei delitti ambientali nel codice penale che si è conclusa con l’approvazione della legge n.68/2015 che ha introdotto come nuovi ecoreati anche il traffico e l’abbandono di materiale radioattivo. Tracciabilità e lotta ai traffici illegali, che vedono anche il coinvolgimento di organizzazioni criminali, devono essere al centro delle nuove politiche di gestione dei rifiuti radioattivi a media e bassa radioattività di origine sanitaria, industriale e da attività di ricerca da smaltire nel futuro deposito nazionale”.
Nel report Legambiente ricorda che in Italia, secondo gli ultimi dati disponibili (riferiti a dicembre 2019), ci sono
31mila metri cubi di rifiuti radioattivi collocati in 24 impianti distribuiti su 16 siti in 8 Regioni. A questi numeri, andranno poi aggiunti nei prossimi anni i rifiuti radioattivi ad alta attività che torneranno nella Penisola dopo il ritrattamento all’estero del combustibile esausto proveniente dagli ex impianti nucleari italiani, e quelli di media attività che si verranno a generare dalle attività di smantellamento degli impianti dismessi. Occorre poi ricordare che l’Italia è i
n ritardo sulla realizzazione del deposito unico nazionale per i rifiuti a media e bassa attività. La pubblicazione della CNAPI, arrivata ad inizio gennaio, rappresenta un primo passo al quale deve però seguire per Legambiente un percorso trasparente, partecipato e condiviso con i territori.
Non può mancare nel report uno sguardo proprio ai territori con 17 storie sulle condizioni in cui si trovano gli impianti e le strutture di stoccaggio di materiale radioattivo più importanti della Penisola, facendo riferimento agli impianti che, al 31 dicembre 2019, detengono rifiuti, combustibile esaurito, sorgenti dismesse e materiali nucleari. Siti come
l’ex centrale nucleare di Borgo Sabotino, a Latina, posta a meno di un chilometro dall’attuale linea di costa, o come le
ex centrali di Garigliano e di Caorso, rispettivamente in provincia di Caserta e di Piacenza, entrambe poste in aree ad elevato rischio idrogeologico in quanto costruite a ridosso di due importanti fiumi come il Garigliano ed il Po. Analogo discorso vale per
Saluggia, nel vercellese, dove in un punto a ridosso della Dora Baltea e a soli tre chilometri dalla confluenza con il Po, sono collocati ben tre impianti diversi (Eurex, LivaNova ed il deposito Avogadro), che hanno spesso corso il rischio di essere alluvionati e dove sono stoccati i rifiuti con la carica radioattiva più elevata (circa il 70% del totale presente in Italia). Non va meglio nel deposito di
Rotondella (Mt) in Basilicata o di Statte (Ta) in Puglia, dove nel primo caso è stata accertata una grave ed illecita attività di scarico a mare dell’acqua contaminata, che non veniva in alcun modo trattata, e nell’altro i rifiuti attualmente gestiti si trovano in una situazione “seriamente preoccupante” a causa del “diffuso deterioramento della struttura”.
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