L’
ambiente alpino e i mari italiani sono gli osservati speciali nel monitoraggio dei possibili effetti dei cambiamenti climatici in Italia. I nostri ghiacciai fondono ogni anno di più, e i mari mostrano evidenti aumenti di temperatura, con alterazioni marcate nel Mar Ligure, Adriatico e Ionio Settentrionale.
Questi sono solo alcuni dei 20 indicatori scelti dal gruppo di lavoro di 18 tecnici, opportunamente coadiuvati da altre decine di esperti provenienti non solo dalle
Agenzie per la protezione dell’ambiente o dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ma anche da altri istituti ed enti di ricerca, racchiusi nel volume di 248 pagine che rappresenta il primo studio di questo livello sul monitoraggio degli impatti dei cambiamenti climatici in Italia, il
“Rapporto SNPA sugli indicatori di impatto dei cambiamenti climatici”.
L’ambiente alpino presenta evidenti
tendenze alla deglaciazione. A causa dell’effetto combinato delle elevate temperature estive e della riduzione delle precipitazioni invernali, si registra una perdita costante di massa (Bilancio di massa dei ghiacciai, indicatore nazionale e caso pilota su Valle d’Aosta e Lombardia), con una media annua pari a oltre un metro di acqua equivalente (cioè lo spessore dello strato di acqua ottenuto dalla fusione del ghiaccio) dal 1995 al 2019: si va da un minimo di 19 metri di acqua equivalente
per il ghiacciaio del Basòdino fra Piemonte e Svizzera al massimo di quasi 41 metri per il ghiacciaio di Caresèr, in Trentino Alto Adige. A tali fenomeni si aggiunge una chiara tendenza al
degrado del permafrost. L’analisi di due siti pilota regionali (Valle d’Aosta e Piemonte) evidenzia un riscaldamento medio di +0,15 °C ogni 10 anni con un’elevata probabilità di “degradazione completa” entro il 2040 nel sito piemontese: infatti si ha permafrost solo in presenza di temperature negative al di sotto dello strato attivo del suolo per almeno due anni consecutivi, condizione che rischia di scomparire al 2040.
Anche passando dai monti
al mare la situazione mostra segnali inequivocabili: all’aumento della temperatura del mare corrisponde già una significativa variazione della distribuzione delle specie, con un aumento della pesca nei mari italiani di quelle che prediligono temperature elevate (specie di piccole dimensioni come acciuga, sardinella, triglia, mazzancolle e gambero rosa), che si stanno diffondendo sempre più a nord nei mari italiani. Penalizzate, invece, le specie di grandi dimensioni, talvolta di grande interesse commerciale,
come il merluzzo, il cantaro, il branzino, lo sgombro e la palamita.Le variazioni del livello del mare costituiscono fonte di preoccupazione per le conseguenze sulle coste: gli incrementi, dell’ordine di pochi millimetri l’anno (valori medi del trend pari a circa 2,2 mm/anno
con picchi nel Mare Adriatico di circa 3 mm/anno), sono continui e appaiono ad oggi irreversibili. Particolare attenzione merita il caso di Venezia, dove è presente un fenomeno combinato di eustatismo (innalzamento del livello del mare) e subsidenza (abbassamento del livello del terreno): nel lungo periodo (1872-2019) il tasso di innalzamento del livello medio del mare si attesta sui 2,53 mm/anno, valore più che raddoppiato a 5,34 mm/anno considerando solo l’ultimo periodo (1993-2019).
Evidenze di
stress idrico per le colture (mais, erba medica e vite) e le specie vegetali analizzate (ambienti naturali tipici del Friuli) si riscontrano nei casi pilota di Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia, dove la carenza continuativa di rifornimento idrico valutata in diversi mm/decennio può comportare sul lungo periodo possibili conseguenze sul ciclo di crescita e riproduttivo, e una consistente perdita produttiva con evidenti ricadute economiche.
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